La storia di Dolcedo nel racconto del dottor Andrea Gandolfo - Riviera24

2022-10-10 04:15:14 By : Mr. Jimmy-Vicky Zheng

Borgo in val Prino, le cui origini risalgono all’Alto Medioevo, è stato per lunghi secoli assoggettato alla Repubblica di Genova

Sanremo. Le origini di Dolcedo e la sua storia: è questo il tema dell’approfondimento settimanale dedicato al territorio offerto dallo storico di Sanremo Andrea Gandolfo. Borgo in val Prino, le cui origini risalgono all’Alto Medioevo, Dolcedo è stato per lunghi secoli assoggettato alla Repubblica di Genova. Ecco la sua storia:

Dolcedo rappresenta il centro più antico e popoloso della valle del Prino ed è suddiviso in otto borgate sparse che occupano il fondovalle tra gli uliveti delle colline circostanti, alla confluenza del rio dei Boschi, che scende dalle pendici orientali del Monte Faudo, nel torrente Prino. Il territorio comunale è costituito dal capoluogo, tipico centro abitato di fondovalle, detto «Piazza» per essere stato anticamente sede del locale mercato, da Isolalunga, situata poco a est di Dolcedo Piazza lungo la strada proveniente da Porto Maurizio, da Costa Carnara, Bellissimi e Lecchiore in una zona più a ponente, sulla strada che si snoda verso il Monte Faudo, e dai due piccoli borghi di pendio praticamente contigui al capoluogo, di Ripalta, situata sul rilievo digradante verso i due corsi d’acqua dei Boschi e Prino, e di Castellazzo, che richiama nel nome un antico castello attualmente scomparso intorno al quale si sviluppò forse l’abitato medievale, situato a sud di Dolcedo Piazza.

Il capoluogo è il centro che conserva maggiormente le caratteristiche urbane dell’antico borgo medievale, anche se le strutture edilizie sono state rinnovate a partire dal XVII secolo, con angoli suggestivi tipicamente medievali come la palazzata sull’argine sinistro del Prino, le cui logge ad arco sommitale (le altane) si armonizzano con la strada sottostante coperta da una serie di volte a botte, una tipica via antica detta Caruggiu Suttàn terminante in corrispondenza della cosiddetta torre Saracena, sulla quale si aprono antiche botteghe cinquecentesche con il piano vendita ricavato sulla porta; l’abitato consta di due parti relativamente distinte anche dal punto di vista morfologico: una, più antica, raccolta intorno al polo dell’attuale collegiata barocca, strutturata a maglia edilizia fitta e irregolare con tessuto stradale tortuoso e angusto, mentre l’altra parte è marcatamente aderente agli argini del Prino, che fornisce la forza motrice ad una serie di mulini e frantoi. Altri e più marcati rifacimenti della struttura medievale del borgo sono riscontrabili nella zona più a sud, dovuti in massima parte alla costruzione di nuovi tipi stradali più ampi e continui, oltre a vari edifici di carattere religioso in diverso rapporto di scala con le strutture di epoca anteriore. La frazione di Ripalta ricalca una consueta tipologia urbanistica nella quale l’ubicazione di fine crinale e la destinazione agricola del borgo determinano la forma planimetrica e i principali tipi edilizi dell’abitato, mentre la frazione di Isolalunga si sviluppa a ventaglio su una pendice collinare ben esposta al sole con una compagine urbana molto compatta del borgo, che conserva inalterati i suoi margini e non presenta notevoli sostituzioni o integrazioni del tessuto edilizio mantenendo praticamente integro il rapporto figurativo con la campagna circostante. Il toponimo è un derivato col suffisso -eto, che forma generalmente nomi collettivi da nomi di piante, il quale potrebbe a sua volta derivare dalla base dolsa “spicchio d’aglio” o “baccello”, passata per metonimia a indicare una pianta, oppure dal termine greco dólikos, nome di una specie di legumi, che si è conservato nei dialetti italiani meridionali, anche se le forme in -eto indicano quasi sempre delle specie arboree quali frassineto, acereto e pineta, da una delle quali sembra più probabile sia derivato il toponimo del paese.

Le origini di Dolcedo risalgono presumibilmente al periodo altomedievale, anche se la prima attestazione sicura dell’esistenza del borgo è costituita dalla concessione, fatta il 17 maggio 1103 dal vescovo di Albenga Adelberto ai monaci di Lérins, con la quale il presule ingauno autorizzava la separazione della chiesa dolcedese di San Tommaso dalla matrice di Santa Maria Assunta ai Piani. Nel corso dell’XI e XII secolo il territorio di Dolcedo era probabilmente sotto la giurisdizione del monastero di Caramagna, come sembra provato dalla bolla pontificia emanata da papa Onorio III il 17 agosto 1216, con la quale il pontefice prendeva sotto la sua protezione il suddetto monastero confermandone i relativi possedimenti, tra i quali è citata una Villam Dulce, che dovrebbe corrispondere all’attuale paese. Anche se tale dipendenza dalla «corte» monastica di Caramagna e Piani non è storicamente sicura, è tuttavia assolutamente certo che, a partire dall’inizio del XII secolo, il paese passò saldamente sotto il dominio dei Marchesi di Clavesana, il cui esponente Bonifacio, nell’ambito di un patto di alleanza stipulato con Genova il 17 dicembre 1192, con cui aveva solennemente promesso di salvare ed aiutare i Genovesi in tutta la Marca di Albenga, assicurò il governo genovese di non fare cospirazioni con nessuno degli uomini di vari paesi della Riviera di Ponente, tra i quali figura pure quello di Dolcedo, che compare per la prima volta in un atto pubblico.

Successivamente i Dolcedesi, per affrancarsi dal dominio dei Clavesana, si allearono negli ultimi anni del XII secolo con gli abitanti di San Giorgio di Torrazza e con quelli della zona costiera nel formare il Comune tripartito di Porto Maurizio, all’interno del quale Dolcedo divenne il capoluogo della Valle del Prino, costituendo il Terziere di San Tommaso, una delle tre circoscrizioni amministrative facenti parte della «Magnifica Comunità di Porto Maurizio». Dopo essersi quindi formalmente sottomesso a Genova già nel 1200, il borgo passò definitivamente alla Repubblica con la cessione dei diritti feudali sulla zona da parte dei marchesi di Clavesana, i quali, con atto rogato il 1° giugno 1228, cedettero tutti i loro diritti sul paese al podestà genovese Guiffredo di Pirovano, che, con altro atto stipulato lo stesso giorno, promise di mantenere l’impegno di pagare annualmente la somma di duecentocinquanta lire ai marchesi Ottone e Bonifacio, che nei giorni 3 giugno e successivi si recarono nei vari paesi venduti per sciogliere gli abitanti dei loro ex domini dal giuramento di fedeltà, senza passare però – a quanto risulta – da Dolcedo, che venne trascurato probabilmente perché allora il paese era formato da poche case e aveva quindi un numero assai limitato di residenti.

Durante il XIV secolo si verificò la trasformazione agricola del territorio dolcedese, che era stata avviata dai Benedettini lerinesi fin dal 1119, quando tali religiosi avevano costituito il centro monastico della zona nella chiesa di San Martino introducendo la coltura dell’ulivo, destinata a diventare nei secoli successivi la principale fonte di ricchezza dell’intero comprensorio. Nel corso del Trecento il paese visse un periodo di agiatezza economica con tutte le ville fornite di botteghe, negozi e macelli, mentre nel quartiere Piazza fiorivano le attività commerciali con banchi e magazzini, dove si vendevano cuoi di Barberia, vini, cordami e panni per abiti da lavoro, tra cui era particolarmente pregiato quello molto resistente denominato (con termine entrato nei dialetti liguri dalla lingua araba) arbaxo o arbasino, fatto con lana del posto, per la cui produzione era rinomata la ditta Gazzano, alla quale si affiancava la famiglia Airenti che aveva introdotto la coltura della seta, di cui avrebbe avuto per molto tempo la privativa, mentre era notevolmente diffuso e prospero anche l’artigianato locale. Particolare rilevanza assunsero però sotto il profilo economico la coltivazione dell’ulivo e la commercializzazione dell’olio, che resero in breve tempo il paese uno dei centri più importanti della valle per l’ingentissima produzione di olive, che nei primi tempi si spremevano in specie di sacchi e poi in frantoi a sangue, presenti in special modo nelle case degli abitanti più facoltosi; quindi, in seguito all’ulteriore perfezionamento del sistema di estrazione dell’olio, si diffusero sempre più massicciamente i frantoi ad acqua disseminati sulle sponde dei due torrenti di fondovalle. Nell’epoca tardomedievale si formarono inoltre numerose associazioni tra famiglie nobili dolcedesi, le quali, grazie ai lasciti ricevuti, divennero proprietarie di cospicui patrimoni, costituiti in gran parte da vaste estensioni di terreni amministrati da appositi procuratori, che ne accrebbero ulteriormente l’importanza permettendo loro di competere con le potenti famiglie di Porto Maurizio e di costruire sfarzosi palazzi; molto attivi erano anche gli esponenti delle arti liberali quali notai e avvocati, come provato dalla notevole consistenza di affari e contrattazioni risultanti da un’ingente documentazione archivistica, mentre i più indigenti si riunirono in associazioni di classe costituite da artigiani, callegari, bottai, macellai, marinai e altri, che promuovevano e difendevano gli interessi dei loro affiliati. Il notevole grado di benessere raggiunto dalla popolazione dolcedese nel XIV e XV secolo è provato anche dall’esistenza in quel periodo di un ospedale con redditi adeguati al bisogno, mentre nel Quattrocento, se non ancor prima, il paese era dotato di un pubblico orologio – fatto assai raro a quei tempi – e vi esercitavano l’insegnamento elementare numerosi maestri di scuola, che erano affiancati anche dai cappellani delle borgate.

Nella prima metà del Cinquecento, secondo i dati raccolti da Agostino Giustiniani nei suoi «Annali» pubblicati nel 1537, Dolcedo aveva una popolazione superiore a quella di Porto Maurizio con 500 «fuochi» (pari a circa 2000 abitanti) contro i 300 del capoluogo, segno questo dell’indubbio sviluppo economico del paese legato soprattutto all’ingente produzione olivicola, mentre, sempre in base ai dati forniti dal Giustiniani, Dolcedo comprendeva allora le borgate di Legliole, Magliani, Boeri, Tricheri, Ascheri, Bellissimi, Genovesi, Arienti, Ripalta, Pireri, Castellazzo, Costa d’Ascheri, Piazza, Crauri, Costa Carnara, Botti e Isolalunga. Dati relativi al Seicento confermano inoltre la particolare consistenza dell’olivicoltura nella zona di Porto Maurizio, nella quale era compreso anche il territorio dolcedese, che si trovava al terzo posto per l’ammontare della tassa sull’olio tra tutte le località liguri, mentre, secondo i dati raccolti dal prefetto Chabrol de Volvic all’inizio dell’Ottocento, la circoscrizione portorina sarebbe stata addirittura al primo posto nella graduatoria dei centri produttori di olio. Dagli inizi del XVI secolo, e fino al principio del XIX, la valle del Prino vide dunque una sempre più ampia e massiccia diffusione della coltura dell’ulivo, che diede origine ad una vera e propria monocoltura a carattere speculativo, tanto che, nei primi anni dell’Ottocento, a giudizio del succitato prefetto napoleonico, le altre piante alimentari erano così poco coltivate da fornire cibo per meno di un ventesimo del fabbisogno.

Nel 1504 era intanto sorto anche un Monte di Pietà, che sarebbe rimasto attivo fino al 1863, il quale, grazie all’azione congiunta del frate domenicano e abile oratore padre Cristoforo e dell’oculato amministratore Cristoforo Ramoino, favorì sensibilmente l’economia del paese avvalendosi dei fondi ottenuti dalle famiglie possidenti locali che avevano versato all’istituto due «pinte» d’olio; con i fondi del Monte si costruì tra l’altro la loggia, oggi Loggia del Comune, sotto la quale si aprirono numerosi negozi di facoltosi mercanti, la cui proficua attività vive ancor oggi nelle unità di misura, che erano allora in uso, cioè due lineari e due per liquidi. Con il passare dei secoli si moltiplicò inoltre il numero dei frantoi, sino a superare alla metà dell’Ottocento il centinaio, mentre per la vendita dell’enorme quantità di olio prodotta ogni anno nel comprensorio si era gradualmente formata una vastissima rete commerciale che vedeva il continuo andare e venire in paese di numerosi commercianti di olio ma anche di quelli di stoffe, destinate ad abbellire le signore locali. Lo sviluppo dell’olivicoltura fu anche favorito dal sempre più sofisticato perfezionamento delle tecniche di lavorazione del prodotto, tra le quali spicca quella di un nuovo sistema di lavaggio della sansa, introdotto nel 1717 da un dolcedese di nome Mela, che permise di incrementare la produzione complessiva di olio del cinque per cento.

Dopo alcuni secoli di aspre contese ed estenuanti lotte intestine con la comunità di Porto Maurizio volte ad ottenere l’autonomia amministrativa dal capoluogo, nel 1613 Dolcedo ottenne finalmente dalle autorità genovesi la tanto sospirata indipendenza con l’erezione del paese a Comune autonomo sempre però nell’ambito della stretta alleanza con la Repubblica di Genova. Nel corso dell’età moderna il borgo continuò quindi a crescere sotto il profilo economico e sociale, contribuendo notevolmente anche allo sviluppo complessivo di tutto il territorio della Valle del Prino. Dopo la caduta della Repubblica oligarchica e la nascita della Repubblica Ligure nel 1797, il Comune di Dolcedo passò prima sotto la Giurisdizione degli Ulivi con capoluogo Porto Maurizio e poi, nel periodo della sua annessione all’Impero francese dal 1805 al 1814, venne inglobato nel circondario di Porto Maurizio, elevato a Sottoprefettura nell’ambito del Dipartimento di Montenotte, retto dal già menzionato prefetto Chabrol de Volcic. Dal 1815, in seguito all’annessione della Liguria al Regno di Sardegna, il paese entrò a far parte del Mandamento di Porto Maurizio, incluso nella provincia di Oneglia, passando quindi, dopo la cessione del Nizzardo alla Francia nel marzo 1860, sotto la giurisdizione della neocostituita provincia di Porto Maurizio. Diversi anni dopo il paese uscì quasi indenne dal terremoto del 23 febbraio 1887, che provocò soltanto danni ad alcuni edifici senza causare fortunatamente né vittime né feriti tra gli abitanti del borgo, trentatré dei quali ottennero tuttavia un mutuo di 64.330 lire, mentre il comune ricevette dal governo la somma di 59.980 per la riparazione di edifici municipali e altre 4500 lire per quella di chiese, oratori, case canonicali e sedi di confraternite risultati danneggiati dal sisma. Oltre trent’anni anni dopo, per onorare la memoria dei molti Dolcedesi caduti nel corso della prima guerra mondiale, il Comune decise di erigere un monumento alle vittime locali del conflitto in un nuovo giardino denominato «Parco della Rimembranza» con al centro un tronco di colonna di marmo bianco, recante incisi appunto i nomi dei caduti dolcedesi nella Grande Guerra e sovrastato da un’aquila di bronzo nell’atto di deporre la bandiera nazionale. Il monumento venne ufficialmente inaugurato il 29 luglio 1923 alla presenza delle massime autorità civili e militari della provincia. Nel corso dell’ultima guerra mondiale il paese dovette subire le pesanti conseguenze del conflitto soprattutto dopo la stipulazione dell’armistizio con gli Alleati nel settembre 1943 e la successiva installazione di un presidio da parte di una compagnia tedesca nel marzo-aprile del ’44. Nell’agosto successivo squadre di genieri tedeschi ripararono la strada Bellissimi-Bastia, che era stata fatta saltare poco prima da alcuni partigiani garibaldini; il 30 novembre ’44 il paese venne poi investito da tre colonne provenienti da Piani, da Caramagna e dalla carrozzabile Caramagna-Dolcedo con trecento nazifascisti che si riversarono nella zona per compiere rastrellamenti e saccheggi, senza tuttavia che il primo battaglione della IV Brigata Garibaldi «Elsio Guarrini» subisse nessun attacco da parte nemica per essere stato tempestivamente avvertito delle manovre avversarie. Un altro drammatico episodio si era verificato il giorno 30 dell’agosto precedente, quando una squadra del 4° distaccamento, sempre della IV Brigata, aveva investito con le mitragliatrici i militari della postazione tedesca di Bastera, nei pressi di Dolcedo, uccidendo cinque individui tra i soldati tedeschi, i quali avrebbero quindi compiuto un massiccio rastrellamento nel paese per rappresaglia nei giorni successivi all’attacco dei partigiani.

Nel gennaio del ’45 il borgo rimase poi in balia per una ventina di giorni di brigatisti neri, che diedero alle fiamme molte case e rapinarono una trentina di bovini, mentre gli esponenti delle forze antifasciste locali avevano dato vita al CLN, che risultò costituito dal socialista Ernesto Acquarone, dal democristiano Giuseppe Berta e dal comunista Sergio Novelli. Nel secondo dopoguerra l’economia del paese ha registrato un consistente incremento, dovuto soprattutto all’aumento della produzione olivicola, che oggi può contare, oltreché su nove frantoi antichi rimasti ancora in funzione, su due aziende di tipo moderno in grado di lavorare le olive nel modo più rapido e razionale e soprattutto in quantità assai più elevate rispetto a quelle ottenute con i sistemi tradizionali nei vecchi frantoi a conduzione familiare, i quali, tuttavia, quando sono ancora funzionanti, risultano discretamente attrezzati, tanto che dalla spremitura delle olive in tali macchine si ricava ancor oggi un eccellente prodotto, costituito dall’olio «extra vergine», o, in caso di minore acidità, da uno dei migliori oli vegetali disponibili in commercio. L’ingente quantità di olio prodotto nel territorio dolcedese, che fino a circa venticinque anni fa si aggirava sui 3500 quintali, ricavati a sua volta da circa 18.000 quintali di olive, sono venduti in gran parte a privati e, solo in mancanza di richieste, portati sulla piazza di Oneglia e ivi commercializzati, mentre agli oleifici industriali onegliesi dotati di reparti di rettificazione, sono vendute le partite di olive o di olio che presentano dei difetti, soprattutto per quanto riguarda la rancidità e l’acidità eccessiva. Sempre nel settore primario riveste una certa rilevanza, anche se molto limitata, la floricoltura, che viene praticata in alcuni appezzamenti in località Ripalta dando lavoro a circa cinque famiglie che producono garofani, rose e anemoni, mentre l’allevamento è ormai di fatto ridotto a dimensioni minime, anche se esiste tuttora un modesto allevamento di mucche da latte in due aziende del comprensorio. Per quanto concerne le attività industriali, sono pochissimi gli addetti in questo comparto che lavorano nelle aziende locali, tra le quali si annoverano una che produce vetri e cristalli, un’altra che fabbrica tende da sole e un’altra ancora specializzata nel montaggio di piccoli elettrodomestici e apparecchi per uso medico, tanto che la maggioranza degli addetti al settore secondario è costituita da pendolari che si recano giornalmente ad Imperia per svolgere la loro attività di lavoro specialmente nel comparto dei servizi. Negli ultimi anni ha assunto tuttavia particolare rilevanza il settore del turismo, che si può avvalere di una ristorazione molto curata in grado di offrire ai turisti i più rinomati piatti della cucina locale, mentre comode strade carrozzabili consentono rilassanti passeggiate ed escursioni sia a piedi che in auto in un ambiente naturale ancora intatto e ricco di fascino, immerso tra gli uliveti del fondovalle e i bei prati a quote più alte fino alla panoramica cima del Monte Faudo, dove i turisti possono trascorrere piacevoli giornate, ravvivate dalle varie manifestazioni organizzate soprattutto durante la stagione estiva dalla Pro Loco. Lo sviluppo economico del paese è stato inoltre recentemente favorito dalla presenza permanente di una vitale e importante comunità di cittadini stranieri, in gran parte provenienti dalla Germania, che si sono stabiliti nella media e alta valle del Prino, contribuendo non soltanto alla crescita economica del paese ma anche ad un reciproco e benefico processo di acculturazione tra le varie componenti della società dolcedese.

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