Esattamente trent’anni fa (16 settembre) vi fu la celebre speculazione di George Soros sulla lira da 48 miliardi di dollari (il “mercoledì nero”). Ma, oltre che per questo, per le stragi di mafia, Tangentopoli, il prelievo forzoso di Amato, l’anno fu nefasto per almeno altri due eventi epocali: la firma del Trattato di Maastricht e le decisioni assunte sul Britannia dalla grande finanza. Ora, il disastro derivato da quelle scelte è sotto gli occhi di tutti
Pare che l’espressione annus horribilis sia stata utilizzata per la prima volta nel 1891. A farlo fu una pubblicazione della Chiesa anglicana per definire il 1870, anno in cui la Chiesa cattolica aveva introdotto con papa Pio IX il nuovo (e discusso) dogma dell’infallibilità papale. Evidentemente il latino piace agli inglesi, visto che la regina Elisabetta II , in un discorso pronunciato il 24 novembre 1992 a Guildhall, riprese il termine per definire l’anno che correva. Ma le ambasce della sovrana riguardavano più fatti familiari che nazionali o internazionali (vedi qui, da VanityFair.it). Beh, sì: anche i ricchi piangono.
Purtroppo lo stesso anno, il 1992, visto alla giusta distanza, cioè trent’anni dopo, risulta essere stato una vera e propria iattura proprio per la nazione italiana. Già il collega Giuseppe Licandro, in un articolo uscito su LucidaMente 3000 nel mese di maggio, aveva accuratamente ricordato alcuni avvenimenti che rendono purtroppo memorabile quell’anno nefasto: l’inizio dell’inchiesta “Mani Pulite”/Tangentopoli che portò alla fine del sistema dei partiti della Prima Repubblica e le stragi di mafia Falcone-Borsellino (23 maggio e 19 luglio). Ma forse ancor peggio furono la patrimoniale di Giuliano Amato (11,5 miliardi di lire prelevati tra il 9 e il 10 luglio; vedi Amato e quel colpo di mano notturno che impose la patrimoniale sulla casa) e soprattutto la successiva speculazione verso la lira di George Soros (16 settembre, il “mercoledì nero” che ci costò la bellezza di 48 miliardi di dollari, con la svalutazione del 30% della lira; vedi qui, da Tiscali News): due segnali epocali che indicavano quale sarebbe stato il futuro dei risparmi dei sempre parsimoniosi e oculati italiani.
Ma non è tutto qui. Il quadro va completato con altri due eventi alla base di tante successive catastrofi: il Trattato europeo di Maastricht (Trattato sull’Unione europea, Tue, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore nel 1993) e il summit del 2 giugno sul panfilo Britannia della regina Elisabetta II (ancora lei!), cui partecipò il gotha della finanza (tra i quali Mario Draghi ), nonché tanti uomini politici di spicco europei e italiani. Entrambi gli eventi diedero la spinta decisiva per smantellare la macrostruttura economica italiana fondata su un sistema misto Stato-aziende pubbliche-aziende private unico al mondo e che ci aveva consentito, proprio nel 1991, di divenire la quarta potenza economica del pianeta.
Del Trattato di Maastricht abbiamo già parlato ampiamente in un altro nostro precedente articolo (vedi qui). Con tale accordo e con quello successivo di Lisbona (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, Tfue, firmato nel 2008 ed entrato in vigore nel 2009), si ha una completa sottomissione alle banche centrali e a un’economia neoliberista di mercato. Come abbiamo scritto, «viene messa in cantina non solo qualsiasi remota ipotesi di Stato socialista, ma persino di Stato sociale. Il tutto in piena armonia col documento di 16 pagine datato 28 maggio 2013 della più importante banca statunitense JP Morgan (leggi Ricetta Jp Morgan per Europa integrata: liberarsi delle costituzioni antifasciste)». Il meeting sul Britannia fu organizzato dagli «Invisibili britannici». Sembra proprio di cadere nel più fantasioso complottismo, invece, si chiamavano proprio così. Draghi, infatti, iniziò il proprio intervento con queste parole: «Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata britannica e gli Invisibili britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico». Pertanto, per chi grida ancora al complottismo e affini, può leggersi il testo integrale del discorso di Draghi di quel funesto 2 giugno 1992, pubblicato meritoriamente il 22 gennaio 2020 da il Fatto Quotidiano.
Non stiamo dunque parlando di sette segrete o degli «Illuminati». I «British Invisibles» erano dei lobbisti, un potentato economico-finanziario che cerca di piegare le scelte di governi e potenti della terra ai loro interessi. Oggi il gruppo si chiama «TheCityUk» e ha un proprio sito, nel quale si definisce subito «the industry-led body representing UK-based financial and related professional services». Alla luce del sole, anche se espresso nella neolingua anglosassone del neoliberismo globalista finanziario. In effetti, alla finanza anglosassone han sempre fatto gola le aziende italiane che riscuotevano successo in tutto il mondo. Se queste danno fastidio, si può ostacolarle, fino ad eliminarne i leader, come nel caso di Enrico Mattei . Ma perché non appropriarsene? E, difatti, la grande “assemblea” sulla nave della regina passa alla storia come il passo decisivo della privatizzazione (o meglio, il saccheggio) dell’immenso apparato produttivo e finanziario dello Stato italiano. Ma in cambio di cosa?
Ce lo dice lo stesso Draghi in quel suo discorso sul Britannia: «Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito». Dunque, la grande promessa era la riduzione del deficit pubblico, all’epoca peraltro sostenibilissimo. E anche maggiore efficienza, meno sprechi e corruzione, che – è innegabile – purtroppo caratterizzavano le industrie italiane pubbliche o a capitale misto. In realtà è avvenuto proprio il contrario. E non è difficile da capire. Se la tua famiglia ha un certo debito, ma possiede dieci case in affitto, alla lunga come potrebbe ripianarlo? Con le pigioni ricevute o svendendo le dieci abitazioni che, tra l’altro, col tempo si sarebbero rivalutate? Tuttavia, nel suo discorso Draghi non pone solo lo scopo dello smantellamento delle più redditizie imprese nazionali. C’è qualcosa forse di peggio e, che, comunque, si lega alla prima finalità: l’abbattimento completo dello stato sociale (o welfare state) e delle garanzie per i più deboli. Draghi dixit: «Un’ampia privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico, riscrive confini tra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante».
Niente più sussidi? Il piano è complessivo: «Questo processo […] indebolisce la capacità del governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale. Tuttavia, consideriamo questo processo – privatizzazione accompagnata da deregolamentazione – inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea. L’Italia può promuoverlo da sé, oppure essere obbligata dalla legislazione europea». Tradotto: chi se ne frega dei disoccupati e delle aree povere del paese?; e, se non lo fanno i governi italiani, sarà l’Unione europea a costringerli. Quello che conta è il mercato senza regole! I risultati si vedono, eccome: L’Italia è l’unico Paese Ue dove i lavoratori guadagnano meno di 30 anni fa. I dipendenti italiani percepiscono quasi il 3% in meno rispetto al 1992 (quelli lituani, che di certo partivano svantaggiati, +276,3; ma anche Germania e Francia, che avevano già stipendi alti, si attestano rispettivamente sul +33,7% e +31,1%, e persino la Grecia segna un +30%). Ma che fa la politica? Secondo Draghi e amici, meno politica c’è, meglio è: «Un ultimo aspetto attraente della privatizzazione è che è percepita come uno strumento per limitare l’interferenza politica nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche. Questo è certamente vero e sbarazzarsi di questo fenomeno è un obiettivo lodevole». Chi inviò sul Britannia quello che Francesco Cossiga definì «un vile affarista […], socio della Goldman Sachs […], liquidatore dell’industria pubblica italiana»?
Fu Guido Carli , all’epoca ministro del Tesoro, di cui era pupillo, e che firmò, insieme a Giulio Andreotti , il Trattato di Maastricht. Nella sua autobiografia Cinquant’anni di vita italiana , pubblicata un anno dopo, nel 1993, espone quello che oggi appare proprio come un colpo di stato: «L’Unione europea implica la concezione dello “Stato minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva degli enti locali, il ripudio del principio di gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della “scala mobile”, la drastica riduzione delle aree di privilegio, la mobilità dei fattori produttivi, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e nell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionisti non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche da parte dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe». Anche in questo caso, sintetizziamo e chiariamo: nessun intervento dello Stato nell’economia, governi decisionisti e quasi autoritari, meno sanità, previdenza, pensioni, mobilità e precariato, liberi prezzi. Eppure, quasi nessuno si oppose a Maastricht.
Manovre che sembrano oscure e può apparire “complottista” chi le denuncia. Invece, come La lettera rubata di Edgar Allan Poe , proprio per meglio nascondere una porcheria, niente è più efficace che esporla, come abbiamo scritto, alla luce del sole. Lo stesso è avvenuto con centinaia di accordi internazionali-capestro firmati, ma senza che se ne sia data adeguata informazione sui media e, soprattutto, senza che si sia informata l’opinione pubblica su quello che significavano e sulle loro conseguenze sulla vita di tutti. Sarà stato solo un caso che, sempre nel 1992, sia iniziato, con Tangentopoli e l’eliminazione dei partiti di impronta cristiana, socialista, repubblicana e patriottica, il repulisti della Prima Repubblica coincidente con la fine dello Stato sociale a protezione dei ceti più poveri, lasciati in balìa del libero mercato? E che l’uomo politico maggiormente messo alla gogna fu Bettino Craxi , che si era opposto più di tutti alle influenze politico-economico-militari esterne che potessero essere contrarie agli interessi italiani?
(LucidaMente 3000, anno XVII, n. 201, settembre 2022)
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