Gli atleti greci, i campioni delle gare panelleniche

2022-10-09 20:37:08 By : Ms. Amanda Yang

Davanti agli occhi attenti degli spettatori, i due lottatori si fronteggiano in un feroce corpo a corpo: le ossa scricchiolano sotto la spinta delle loro braccia vigorose e il sudore scorre lungo le loro schiene provate dalla tensione e dalla fatica del combattimento; né l’uno né l’altro, però, sembrano intenzionati a cedere. Per due volte a turno ciascuno dei contendenti riesce ad atterrare l’avversario, ma la vittoria definitiva del campione si fa attendere; intanto la folla è in fermento e incita i lottatori dagli spalti. Alla fine, uno dei due contendenti riesce a mettere in ginocchio il rivale e, stendendolo sulla polvere, si lancia con tutto il suo peso sul corpo del perdente. In quel momento gli spettatori, che sono accorsi da ogni angolo della Grecia a Olimpia, città dell’Elide nel Peloponneso, si alzano e acclamano entusiasti il nome del vincitore, mentre un araldo proclama a gran voce “il migliore dei Greci”.

Si poteva assistere a simili esibizioni una volta ogni quattro anni – dal 776 a.C. fino al 393 d.C., anno in cui le Olimpiadi furono proibite dall’imperatore romano Teodosio – a Olimpia o in altri santuari che accoglievano le celebri gare atletiche degli elleni.

Senza dubbio i giochi olimpici dell’antichità somigliavano molto alle gare sportive attuali, con le loro dimostrazioni di forza e di abilità fisica tanto apprezzate dal pubblico. Rispetto ai giochi dei contemporanei, tuttavia, scontri come quello descritto avevano un significato più profondo nel mondo greco. Nell’immaginario ellenico, lo spettacolo evocava, infatti, episodi della mitologia, le cui vicende erano state narrate, per esempio, nell’Iliade.

Nel canto XXIII, Omero descrive con dovizia di particolari una lotta tra due grandi guerrieri dell’esercito di Agamennone, e ci informa su competizioni molto simili a quelle che si disputavano a Olimpia: una sfida di velocità con i carri, una corsa a piedi, gare di lancio del peso e del giavellotto e perfino un’interessante prova di precisione nella quale con una freccia si deve tagliare uno spago teso su cui è posata una colomba.

Nel racconto di Omero tutte queste prove si erano svolte in occasione delle cerimonie funebri organizzate da Achille in onore del compagno Patroclo, caduto in guerra. Tuttavia, non si tratta di un episodio eccezionale nel mondo greco antico. Nello stesso canto dell’Iliade, l’anziano Nestore ricorda come in gioventù abbia partecipato a una competizione analoga in occasione della morte di un altro eroe. Intorno al VII secolo a.C., il poeta greco Esiodo sosteneva nel suo celebre poema Le opere e i giorni di avere recitato una poesia durante alcuni giochi funebri celebrati in onore di Anfidamante, re di Calcide, e di aver vinto un tripode nell’agone poetico.

Gli storici hanno ipotizzato che le gare sportive della Grecia classica possano aver avuto origine dagli antichi giochi funebri, così come è raccontato in Omero e come rivelano le decorazioni di numerosi vasi. Lo “spirito agonistico” dei greci, il gusto per la lotta e la competizione (questo è appunto il significato del termine greco agòn), si sarebbe manifestato sia negli episodi omerici sia nei giochi olimpici dell’epoca classica. Sono molti i tratti comuni agli uni e agli altri, tra cui il carattere aristocratico delle competizioni.

Nel libro VIII dell’Odissea si racconta, per esempio, come Odisseo, dopo essere sbarcato sull’isola dei feaci, assista ad alcuni giochi allestiti dai nobili del luogo in suo onore; ma quando l’eroe mostra l’intenzione di prendere parte al lancio del disco, uno degli aristocratici presenti, ignorando chi sia in realtà il naufrago, dichiara che solo i veri nobili possono partecipare: «Non ti vedo, straniero, come una persona abile nelle gare atletiche, bensì come uno di quelli che viaggiano su una nave con molti remi, un capitano di mercanti, perché non hai niente dell’atleta». Davanti a queste arroganti parole, Odisseo insiste per partecipare alla gara e riesce a sconfiggere persino il suo avversario nella prova.

In epoche successive, l’origine aristocratica smette di essere un requisito ineludibile per partecipare ai giochi, tuttavia è sempre l’aristocrazia a organizzarli, dettando le regole e stabilendo i premi per i vincitori. Un altro aspetto che può essere associato alle origini aristocratiche dei giochi era la deferenza riservata agli atleti con un’evidente superiorità fisica, al punto che talvolta non dovevano neanche dimostrarla sul campo.

Nell’Iliade, sempre nell’episodio dei funerali di Patroclo, quando il re Agamennone si accinge a partecipare alla gara del lancio del giavellotto, Achille gli consegna il premio affermando: «Già sappiamo quanto sei avanti a tutti e quanto sei superiore al resto dei partecipanti sia nella forza sia nell’uso del giavellotto! Prendi, quindi, questo premio e portalo via!». Agamennone non ha, infatti, bisogno di esibire la sua abilità nella gara, poiché tutti riconoscono a priori la sua superiorità. Nel mondo di Omero non c’era, infatti, niente di antieroico nel ritirarsi davanti al migliore.

Il medesimo atteggiamento di rispetto si ritrova anche durante i giochi olimpici, per esempio al momento del sorteggio dei contendenti nelle prove di lotta. I partecipanti, nudi, si riunivano in cerchio ed erano accoppiati nel combattimento se estraevano da un’urna la medesima lettera. Tale tipo di sorteggio compare nel rito descritto nel canto VII dell’Iliade ed è utilizzato dagli eroi greci per designare l’avversario di Ettore sul campo di battaglia. Poiché nella lotta non esisteva distinzione di categoria secondo il peso, le coppie potevano essere molto disomogenee, così che ai lottatori olimpici veniva offerta la possibilità di rinunciare allo scontro quando la superiorità dell’avversario era evidente. Questo atteggiamento non faceva sempre onore al lottatore: Pausania riferisce che nel 25 d.C. uno dei partecipanti, nel vedere il suo avversario, fuggì correndo, e questa fu l’unica volta in cui un atleta fu multato per codardia.

La migliore testimonianza della persistenza della mentalità degli agoni aristocratici narrati da Omero risiede nella prova che apriva i giochi olimpici: la corsa con i carri. Dai tempi dell’Età del bronzo i signori micenei della guerra avevano mostrato il loro prestigio sui carri da combattimento, e di questo si trova memoria nei poemi omerici e in numerosi reperti rinvenuti nelle tombe micenee. Così, non bisogna meravigliarsi che i depositari del vecchio stile di vita aristocratico desiderassero promuovere tali corse fino a renderle le sfide più importanti dei giochi.

È quanto rivelano alcuni degli epinici o “canti della vittoria” che il poeta Pindaro dedicò ai vincitori dei Grandi giochi (olimpici, istmici, pitici e nemei). La gloria nella competizione, infatti, era riservata non all’auriga, ma al proprietario (o proprietaria) del carro.

Da un punto di vista moderno, questa potrebbe sembrare un’ingiustizia, in realtà secondo tale regola, oltre a essere riconosciuto l’alto rango sociale dei possessori di cavalli, era premiata la capacità di allevare campioni. Tra i vincitori di questa prova non mancavano i potenti tiranni della Magna Grecia, celebrati da Pindaro nelle sue odi, o ambiziosi aristocratici, come Alcibiade, che per conquistare prestigio politico nella sua Atene iscrisse sette quadrighe alle Olimpiadi del 416 a.C. con le quali ottenne ben tre premi. In tempi più tardi, anche l’imperatore Nerone prese parte alla gara: nei giochi del 67 d.C., i giudici gli concessero la vittoria nonostante fosse caduto e non fosse riuscito a terminare la prova.

Il programma delle competizioni olimpiche andò profilandosi con il tempo. Benché i giochi durassero sette giorni e vi si svolgessero diverse cerimonie, le gare si concentravano solo in tre giornate. Secondo le fonti, dopo la corsa dei carri e le altre prove equestri, si continuava con il pentathlon, che comprendeva corsa campestre, salto, lotta, lancio del disco e del giavellotto; una combinazione simile, probabilmente, a quella descritta da Omero nell’episodio dei funerali di Patroclo.

Delle cinque prove, quella con caratteristiche più controverse era il salto. In accordo con le rappresentazioni sulle ceramiche, i saltatori impugnavano una sorta di peso o manubrio di pietra o di piombo ed eseguivano un salto multiplo: forse cinque salti di seguito con pausa tra l’uno e l’altro, fino a coprire una lunghezza di sedici metri. La vittoria era assegnata “al migliore dei cinque”, ovvero era sufficiente che uno dei partecipanti arrivasse primo in tre delle cinque prove per essere dichiarato l’atleta più completo.

In alcune discipline di lotta, come il pugilato, la gara terminava quando uno dei combattenti si arrendeva alzando la mano o veniva messo al tappeto. Così racconta Omero: «Si avventarono l’uno sull’altro e incrociarono le loro mani forti; terribili erano gli scricchiolii delle mandibole, e il sudore scorreva per tutte le loro membra. A un certo punto Epeo si lanciò all’assalto e, in un momento di distrazione dell’avversario, lo colpì allo zigomo e questi non poté più restare in piedi […] il perdente fu portato fuori dall’arena, trascinava i piedi e vomitava sangue, mentre la testa era reclinata da un lato».

Era la lotta propriamente detta (pale) a riscuotere maggiore popolarità, e uno dei motivi era che i grandi lottatori venivano identificati con Eracle, l’eroe greco per eccellenza. Si narrava, per esempio, che quando Milone di Crotone, il più celebre di tutti i campioni di lotta, andò in guerra contro Sibari, lo fece vestito con una pelle di leone e una clava (gli attributi di Eracle) oltre che con le sue sei corone olimpiche. La fama di Milone giunse al punto che presto sorsero storie leggendarie intorno alla sua figura, come quella che riguarda la sua morte: mentre cercava di spezzare un tronco con le mani, precedentemente segnato con l’ascia, rimase intrappolato nella spaccatura e fu divorato da un branco di lupi.

Tuttavia, i lottatori non erano sempre onesti e corretti come i loro modelli mitici. Pausania riferisce che un lottatore aveva ottenuto la vittoria fratturando le dita del suo avversario, sebbene una targa di bronzo ritrovata a Olimpia ci informi che questa pratica fosse proibita. Tutto, invece, era permesso – salvo mordere e mettere le dita negli occhi – in una popolare combinazione di pugilato e di lotta, il pancrazio, da pan (tutto) e kràtos (forza), che si potrebbe tradurre con “onnipotenza”.

Alla fine dei giochi venivano disputate le prove di velocità: lo stadion – così chiamata perché la pista di Olimpia era lunga uno stadio, ovvero circa 192 metri – era la più antica di tutte, in quanto era l’unica disciplina delle prime Olimpiadi del 776 a.C. Perciò, il titolo di olympionikai, vincitori negli antichi agoni olimpici, era concesso al trionfatore dello stadion.

La giornata terminava con una corsa, chiamata diaulos, che copriva la distanza doppia dello stadion, e con un’altra prova di resistenza, il dolikhos, che consisteva nel percorrere ventiquattro volte la pista, ovvero circa cinque chilometri. Una delle ultime prove aggiunte era la “corsa degli opliti”, lo hoplitodromos, nella quale i partecipanti gareggiavano armati di scudo, elmo e schinieri.

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I Grandi giochi si chiudevano con la cerimonia di consegna dei premi. Ognuno dei trionfatori era proclamato come “il migliore tra i greci” e riceveva una corona fatta con le foglie dell’albero consacrato alle diverse divinità cui erano dedicati i giochi: la corona di ulivo a Olimpia, di alloro a Delfi, di appio selvatico a Nemea e a Corinto. A prima vista, questa corona era molto diversa dal tipo di ricompense che Achille aveva offerto ai vincitori nei giochi funebri di Patroclo: in questo caso i premi erano preziosi tripodi, grandi quantità di ferro, cavalli, muli, capi di bestiame e molti altri beni di valore. Ma non solo: i campioni olimpici ottenevano anche altri premi, come l’esenzione dalle imposte o il mantenimento a spese della propria città per il resto della vita, privilegio di cui beneficiavano anche la famiglia e i discendenti del campione.

Nonostante gli atleti gareggiassero nelle competizioni sportive per la propria fama individuale, questa si estendeva anche ai loro concittadini, che accoglievano dunque il vincitore come un eroe. Al di là di qualunque premio, la ricompensa di maggior valore che riceveva un campione nei giochi era la gloria: i guerrieri omerici desideravano fortemente essere immortalati in poemi che esaltavano le loro gesta eroiche e, similmente, i campioni olimpici speravano di vedere perpetuate le proprie imprese atletiche in poemi che essi stessi, o la loro città, si preoccupavano di redigere al fine di esaltarli al pari degli eroi mitici. Essi erano resi eterni anche attraverso delle statue, come il celebre Diadumeno o “atleta coronato” dello scultore Policleto, che costituisce una delle più eccelse rappresentazioni plastiche dell’ideale atleta olimpico. Molte di queste sculture venivano collocate intorno al tempio di Zeus a Olimpia: così gli atleti erano equiparati agli eroi antichi, i quali avevano meritato l’onore di guardare le divinità negli occhi.

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Olimpia e i giochi olimpici dall'antichità a oggi. Maria Mavromataki, Crocetti, Milano, 2003. Le antiche olimpiadi. Il grande sport nel mondo classico. Mario Pescante, Piero Mei, Rizzoli, Milano, 2003. Tutte le opere. Pindaro, Bompiani, Milano, 2010.

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