QuotidianoMolise.com - Il molise in diretta
Anticamente, il modo più diretto di esternare l’amore per una ragazza, da parte di un innamorato, era quello di “portare” una serenata sotto il suo balcone o davanti casa sua, accompagnata dal suono delle chitarre, degli organetti e dei mandolini. Il giovanotto più eseguiva serenate alla sua bella, più intendeva far conoscere l’intensità del suo amore per lei. Alcune volte la fanciulla si compiaceva di indugiare, prima di affacciarsi alla finestra o di uscire sul balcone, con l’intento di avere un numero maggiore di serenate. Quando, invece, teneva chiuse le ante della finestra o del balcone, era il segno che ricusava il corteggiamento dello spasimante. Fonti orali, raccolte nelle contrade della nostra città, raccontano che una serenata doveva essere eseguita in numero dispari, “alla uno, alla tre, alla cinque” e così via. Questa originale usanza campobassana si discosta da quella di alcuni paesi della bassa fortorina che, a seconda del numero delle serenate proposte ad una ragazza, assumeva un suo preciso significato. Francesco Di Marco, in Sant’Elia a Pianisi – Un autore, un paese, una comunità, così scrive sulla esecuzione numerica di una serenata portata ad una ragazza:
“….a) se un giovanotto canta tre canzoni, o fa tre sonate dietro la porta di una ragazza, significa che le fa una dichiarazione d’amore; b) cantarne due significa dimostrarle amicizia; c) cantarne quattro equivale a prenderla in giro…”.
Il testo di una delle serenate più antiche e popolari è quello riportato dal campobassano Enrico Melillo in Otello Rusticano del 1887. Si tratta di una canzone d’amore che lo spasimante dedica alla sua Rosina. Il contenuto si adatta anche ad altri nomi di ragazze. La serenata manca della trascrizione musicale che avrebbe potuto renderla più interessante. Come nel caso specifico delle Canzoni del popolo campobassano, raccolte dallo stesso Autore, la trascrizione dei lemmi di questa canzone d’amore risente del dialetto popolare dell’epoca parlato dai campobassani e dell’influsso lessicale della vicina Campania.
“Vurrija reventà’ ‘na palummèlle, pé’ te vulà’ vecìne, nénna mèja; paróle róce e cìénte cóse bèlle te vularrije sèmpe raccuntà’. Rusi’, te vòglie béne, rimme: me ne vuò’ tu? Chiss’uócchie nire, tunn’e aggraziatiélle, me ranne fuóch’ent’a stu piétte mije, chéssa vuccuccia, ‘ssu nasille biélle, ‘ssu córe tuó me fanne già ‘mpazzì’. Rusi’, te vòglie béne, rimme: me ne vuò’ tu? Tu spósa m’aj’ra jèsse fin’che móre; tu sóla me può fa n óme felice; se po’ che mé tu nen vuò’ fa all’amóre, cumme nu can’ j’ móre ‘nnanz’a te. Rusi’, te vòglie béne, rimme: me ne vuò’ tu? Ra ‘ssa funèstra, nénna mèja ‘respunne; qua basce jètte cinc o sé’ vascille; ramme se nò ‘n’ucchiata, o pé’ ssu munne me sentarraje sèmpe lacremà’. Rusi’, te vòglie béne, rimme: me ne vuò’ tu?”.
Un’altra canzoncina d’amore era La canzone di Capodanno. Questa serenata è stata declamata, non cantata, dalla sig.ra Giovanna Mastropaolo in un’intervista rilasciatami nel 2002. Si tratta di una serenata antichissima, dal contenuto malizioso, che si cantava durante il duro lavoro dei campi.
“È vénute Capuranne! È vénute pé’ tutte l’anne! L’uccelline ca sóna e canta, nén mé n’avvante che mangiar. T’arécuōrde mò fa l’anne quanne stive ammalatella affacciata a’la funestra tutte e ddu a paccià’! La paccia ché tu mé faciste e pure ‘n aniélle cé pérdiste, come faciste pé’ l’arétruà’! La mamma dé’la sposa stéve réntre u male mie. Ma tante ché n’aggia fa’, pūre la figlia m’aggia spusà’! Ra luntane zé séntiva nu mormorie di tanti uccelli ca sventolavan i suoi capelli biondi ca sventolavan per l’amore. E la luna réntre al pozzo mi sembrava una mezzanotte. Addio addio mio consorte andiamo a letto a riposar!”.
Certe volte, alle canzoncine d’amore, facevano riscontro lamenti di rassegnazione intonati da parte della donna, spesso dovuti al fatto di essere stata costretta dai genitori a sposare una persona non amata, più anziana di lei solo perché benestante. Era il cosiddetto matrimonio combinato per motivi di interesse che, nella donna che lo subiva, dava adito ad una malcelata sopportazione del rapporto e a una finzione ingannevole verso il marito che trovava sfogo in improvvisazioni canore molto crude. Uno di questi lamenti di rassegnazione mi è stato cantato da una signora molto anziana di Campobasso che ha voluto mantenere l’anonimato.
“E quanne passa lu viécchie cola-cola, mé pāre ‘na mérécina ré spéziale, e quanne vanne a’la chiesa a spusà’, ‘u viécchie pé’ la via arrémaneva, e quanne vanne a tàula a magnà’, ‘u piattiélle ré vava ‘u ignéva, e quanne vanne a liétte a rurmì’, ‘u viécchie réntre au liétte zé pérdeva. – Zitte zitte mugliéra mè nén suspirà’, ‘na verde gunnella mò té voglie fa’. – Nén voglie né gunnella e né gunnacce, vularrie nu giuvinotte ché mé z’abbraccia. – Zitte zitte mugliéra mè nén suspirà’, ciénte ducate mò té voglie rà’. – Nén voglie né ruciénte e né treciénte, vularrie nu giuvinotte ché mé tamente. – Zitte zitte mugliéra mè nén suspirà’, ‘na verde gunnella mò tè voglie fa’. – Nén voglie né gunnella e né catene, vularrie nu giuvinotte, ma comme a mé!”.
Va detto che anticamente il ruolo decisionale dei genitori nel matrimonio dei loro figli era fondamentale e inderogabile proprio perché sancito dalla prammatica del 1771 del Regno di Napoli, in vigore fino alla metà del XIX secolo. Una norma che stabiliva che le nozze tra due ragazzi, di età compresa tra i 30 anni del ragazzo e i 25 della ragazza, potevano e dovevano celebrarsi solo ed unicamente previo l’assenso dei genitori.
Una delle cause principali perché un matrimonio tra due ragazzi innamorati non andava a buon fine, spesso era la differenza socio-economica intercorrente tra le famiglie, soprattutto quando un contadino si innamorava della figlia di un ricco possidente. Ciò rappresentava un ostacolo insormontabile al coronamento dei sogni dei due ragazzi. In quel caso, anche se erano innamorati l’uno dell’altra, erano costretti a interrompere il loro rapporto d’amore e ad accettare, a malincuore, la decisione dei genitori obbligandoli a sposare una persona a loro sgradita. Come è evidente, i giovani di una volta non godevano di grande libertà nell’esternare i propri sentimenti o nello scegliere il partner con cui formarsi una famiglia, in quanto costretti a rispettare tutta una serie di canoni comportamentali imposti dalla società in cui vivevano e il ferreo rigore che vigeva nelle loro famiglie. Quando due ragazzi si piacevano dovevano ideare ogni tipo di stratagemma, studiato nei minimi particolari, per incontrarsi. Magari ricorrendo alla complicità di qualche amico o amica comuni, che ne facilitasse l’approccio in un posto prestabilito o mettendo in atto alcuni semplici espedienti, ma efficaci, come quello di scambiarsi un’occhiata o un messaggio alla fontana dove si dirigevano per attingere l’acqua, al mercatino per fare degli acquisti o quando la domenica si incrociavano in chiesa per assistere alla santa Messa. Un fazzolettino lasciato cadere furtivamente dalla fanciulla, ad esempio, poteva costituire il messaggio “cifrato”, inviato al ragazzo che l’aveva adocchiata, di una simpatia ricambiata. L’anta di un balcone lasciata aperta o l’indugiare sullo stesso della ragazza, al passaggio dello spasimante, erano la chiara allusione dell’accettazione delle sue attenzioni. Naturalmente, tutto questo accadeva nella massima discrezione da parte dei due innamorati, tenendo all’oscuro le reciproche famiglie. Oggi è tutto più facile, perché la gioventù ha raggiunto un’emancipazione tale da permetterle di agire in piena libertà, sentendosi padrona delle proprie scelte e dei propri sentimenti; ma una volta non era così.
Il fidanzamento che preludeva al matrimonio, come detto, avveniva quasi sempre tra persone appartenenti allo stesso ceto sociale. Era raro che si fidanzassero e, quindi, si sposassero due persone appartenenti a categorie sociali diverse. Cosicché, un contadino tendeva a sposare una contadina, un operaio mirava a contrarre matrimonio con una donna appartenente ad una famiglia di operai, un artigiano prendeva in moglie una ragazza figlia di una famiglia artigiana e così via. Le condizioni preminenti in un matrimonio erano quelle che i genitori di una ragazza miravano a darla in sposa ad un lavoratore onesto ed economicamente sicuro; mentre, la famiglia del ragazzo puntava alla situazione economica della futura sposa, alle sue comprovate virtù morali ed alla sua “cultura” attenta nella conduzione della casa e nell’educazione dei figli.
Un ragazzo non poteva entrare in casa della fidanzata se prima non veniva presentata ai genitori di lei la richiesta di fidanzamento con intenzione di matrimonio. Il compito della partecipazione (ammasciāta) delle sue intenzioni alla famiglia della ragazza era demandato solitamente al padrino (‘gnóre pàtre) o alla madrina (‘gnóra màtre) del ragazzo, ritenute persone di grande rispetto e di notevole influenza. La famiglia di lei, per riflettere bene sulla richiesta ricevuta, si concedeva circa una settimana per dare una risposta, qualora il pretendente era del posto, altrimenti tardava a darla, anche per alcune settimane, se era di fuori. Un tempo sufficiente per chiedere informazioni sulle condizioni economiche e sulla onorabilità della famiglia del richiedente. Alla scadenza del periodo di riflessione il padrino si ripresentava a casa della ragazza per la risposta. Se veniva accolto con un lauto pranzo, la decisione era positiva; se, invece, gli offrivano una tazza di caffè o un bicchierino di rosolio, il riscontro doveva ritenersi negativo.
Una volta avuto il consenso dai genitori della ragazza, e solo quando i sentimenti dei due ragazzi erano comprovati, le rispettive famiglie si adoperavano per l’ufficializzazione del fidanzamento. Lo spasimante, però, poteva accedere in casa di lei (‘ntratūra) solo dopo l’ufficializzazione del fidanzamento e in determinati giorni della settimana. La festa di fidanzamento veniva organizzata dalla famiglia della promessa sposa, un sabato sera o la Domenica delle Palme, giorni in cui si aveva più tempo a disposizione per onorare la cerimonia. In quell’occasione, avveniva lo scambio dei regali fra i fidanzati, alla presenza di tutti i parenti delle due famiglie. I doni (u runative) venivano presentati generalmente su due vassoi d’argento (‘uāntiere) ricoperti da un velluto rosso o blu per meglio metterne il risalto la preziosità. Il regalo che lo sposo faceva alla sposa consisteva in una collana d’oro che, a seconda della lunghezza, era chiamata cannacca, o serracolle, o in un lungo filo d’oro (làcce), alla cui estremità pendeva una spilla (spìngula), con cui il monile veniva fermato sulla parte sinistra del petto per far sapere alla gente di essere una donna impegnata. Al terminale del filo d’oro poteva essere applicato anche un ciondolo (bréllócche) o un gancetto per attaccarvi un ventaglio o, infine, un piccolo amuleto in corallo contro il malocchio (curnaciēlle, mani-fica, fiērre ‘é cavalle). Se la famiglia dello sposo aveva maggiori possibilità economiche, completava il regalo il cungértine composto da due orecchini d’oro e di corallo (sciūccaglie), con al centro impressi le iniziali A (amore), R (ricordo) oppure, in alternativa, S (souvenir) e un anello con pietra in corallo (curniōla), dono della suocera. I doni della sposa erano una camicia di cotone bianco, da indossare nelle occasioni importanti, i guanti bianchi da usare il giorno del matrimonio, alcuni indumenti intimi da corredo, nella misura di sei per capo, e il classico orologio d’oro da panciotto fornito di catena dello stesso metallo prezioso. Dopo l’ufficializzazione del fidanzamento, e prima delle nozze, i due ragazzi non restavano mai soli in casa. Accanto a loro sedeva generalmente la madre o un parente della fidanzata, cosicché a loro non restava altro che scambiarsi dei languidi sguardi d’amore o dei piccoli baci a distanza. La stessa cosa avveniva quando uscivano per la passeggiata festiva o quando andavano a messa. In quelle occasioni era concesso loro di passeggiare davanti ai genitori che li seguivano da presso.
Alla vigilia del matrimonio, la suocera regalava, alla futura nuora, un ciondolo in filigrana d’oro a forma di stella (préséntosa), al cui centro spesso campeggiavano due piccoli cuori intrecciati in segno d’amore. Questo presente era tenuto in gran conto dalla sposa che lo indossava nelle grandi ricorrenze, tenendolo ben in vista sul petto.
Dopo l’ufficializzazione del fidanzamento, e subito prima del matrimonio, la famiglia del ragazzo, con mediazione del padrino, si incontrava con quella della futura sposa per parlare del corredo che la ragazza avrebbe portato in dote. Se la famiglia stava bene economicamente la dote risultava più ricca, altrimenti l’innamorato doveva accontentarsi dello stretto necessario. Spesso capitava che un matrimonio andava a monte perché la dote della ragazza era ritenuta misera da parte della famiglia del pretendente. In quel caso ai due fidanzati non restava altro che accettare molto a malincuore quel sofferto epilogo. C’era anche chi, non arrendendosi alla volontà delle famiglie, le metteva davanti al fatto compiuto, inteso non con il significato che oggi gli si dà, per intendersi la classica fuga d’amore, ma come il semplice camminare mano nella mano o abbracciati per le vie della città che, a quei tempi, erano ritenuti un vero e proprio gesto compromettente per una ragazza. Ciò non accadeva quasi mai; tuttavia, se si verificava, le due famiglie erano costrette a ricorrere all’atto riparatore del matrimonio per salvare il buon nome della ragazza.
La consistenza di una dote e la relativa elencazione dei capi o degli oggetti di cui era composta venivano trascritte, in duplice copia, su carta bollata o su carta semplice, sottoscritte alla presenza di alcuni testimoni, generalmente i padrini degli sposi. Una copia era consegnata agli sposi, l’altra ai rispettivi genitori. Questo era un atto ufficiale vero e proprio, anche se si trattava di una scrittura privata. In molti casi, quando la dote era più ricca, entrambe le famiglie, soprattutto quella della sposa, la facevano valutare (apprézzà’) ricorrendo alla prestazione professionale di un notaio, che redigeva l’atto alla presenza dei testimoni indicati dalle famiglie. Queste scritture ufficiali avevano un loro significato importante dal punto di vista contrattuale. Esse rappresentavano il patrimonio personale e la volontà dei due sposi che, in caso di separazione o di premorienza da parte di uno dei due, stabilivano che al singolo fosse restituita totalmente la parte di sua spettanza nel primo caso, decurtata della somma occorrente per il funerale nella seconda ipotesi.
A Campobasso, secondo un’antica usanza risalente a prima dell’eversione feudale, la dote della donna era definita in generale a’la cìnche; ma, in alcuni casi, se la famiglia della sposa aveva maggiori possibilità economiche, se ne preparavano a’la sei, a’la ruréce, a’la riciōtte, a’la vintiquātte, ecc., per ogni singolo capo di biancheria, oggetto di rame o di ferro portato in dote dalla ragazza. Qualche volta, in aggiunta ai beni dotali, vi erano anche i beni canistrali, cioè una dote suppletiva di biancheria.
Il giovedì prima del matrimonio, la dote veniva trasportata dalla casa della ragazza in quella in cui sarebbe andata a vivere con il suo sposo, inizialmente la dimora del futuro suocero. Anticamente era un vero e proprio rituale che si svolgeva procedendo in fila indiana attraverso le principali strade del quartiere per far vedere a tutta la popolazione la ricchezza e la bellezza della dote. Aprivano la sfilata le donne che portavano il pentolame di rame (u rame), tra cui risaltava la famosa tina, un recipiente per attingere l’acqua alla fontana. Questo era uno dei doni più importanti che la comare faceva alla sposa. Altri oggetti fondamentali, che rappresentavano meglio il futuro status della donna di casa, erano il mestolo (maniēre) per prelevare l’acqua dalla tina ed il caldaio (chéttóra) dove si sarebbero cucinate le principali pietanze. Seguivano le donne che portavano sulla testa le ceste colme di biancheria ordinaria; mentre, quella più pregiata, dalle trine ai capi ricamati, era contenuta nei cassettoni del comò portati sulla testa da alcuni uomini. Per ultima, sfilava la persona più robusta che trasportava il marmo del comò (préta). Chiudeva il corteo un piccolo carretto su cui vi erano adagiati i materassi. La dote era accolta dalla suocera sulla porta di casa e restava esposta alla vista dei parenti e dei conoscenti fino alla vigilia delle nozze. L’intero corredo era messo in bella evidenza nella stanza destinata a camera da letto degli sposi. Sul talamo nuziale, preparato dalla suocera e dalla comare della sposa, venivano esposti i capi di biancheria più pregiati insieme ai confetti e ad alcune banconote di piccolo taglio, in segno di ricchezza e di felicità. La sera del primo giorno dell’esposizione della dote si concludeva con un pranzo offerto dai suoceri della sposa, dopodiché si ballava e si beveva fino a notte inoltrata.
Fino agli anni ’20 del secolo passato il matrimonio si celebrava nell’arco di due giorni, solitamente il sabato e la domenica, mai di martedì o di venerdì, ritenuti giorni portatori di disgrazia similmente al mese di novembre. Le nozze non avvenivano nemmeno durante la Quaresima o nel mese di maggio, periodo in cui si celebrava l’esaltazione della Croce.
La donna indossava il classico abbigliamento locale, portando sulla testa, fino all’altezza delle anche, la famosa mantigliana (dallo Sp. mantar, coprire) di colore bianco, per indicare di essere giunta pura all’altare. Solo dopo il matrimonio ne indossava una di colore rosso. Non tutte le donne potevano permettersi questo indumento, costosissimo per i tempi, in quanto confezionato con lana proveniente dal Tibet, la cosiddetta lana ‘é tìbbe. Preziosi monili arricchivano il suo abbigliamento, soprattutto quelli donati dal fidanzato il giorno dell’ufficializzazione del fidanzamento, con la famosa ‘uāntiēra (cannacca, sciūccàglie, curniōla, ecc.), la préséntósa, regalatale dalla suocera, ed una serie di anelli d’oro facenti parte dei beni di famiglia. Nei giorni antecedenti al matrimonio, il futuro marito non doveva vedere la sua donna vestita da sposa perché si credeva che portasse sfortuna.
Il vestito dell’uomo era molto più semplice, limitato alla moda classica del tempo, dove faceva spicco la camicia, solitamente di lino, regalatagli dalla fidanzata il giorno della sua entrata in casa. Solo dopo gli anni ’30 il vestiario degli sposi, avvertendo gli influssi d’oltreoceano per il fenomeno dell’emigrazione, incominciò lentamente a cambiare, assumendo fogge che, dallo stile charleston di provenienza americana, si sono aggiornate gradualmente fino a giungere ai modelli dei nostri giorni.
Il matrimonio vero e proprio si celebrava il sabato nella parrocchia della sposa. Alla cerimonia partecipavano i parenti delle due famiglie. Dopo il rito nuziale seguiva un primo pranzo che si teneva a casa della ragazza. Al termine delle immancabili danze (quadriglie, tarantelle, ecc.), lo sposo faceva rientro nella casa paterna, mentre la moglie restava a casa sua. Quello di trascorrere la notte nelle rispettive abitazioni era l’ultimo regalo che entrambi gli sposi facevano ai genitori. La domenica i coniugi si recavano nella chiesa madre di Campobasso, la Trinità, per ascoltare una messa quale atto di ringraziamento per il coronamento dei loro sogni. Non era raro che ad essa partecipassero anche altre coppie di sposi, soprattutto quelle provenienti dalle campagne circostanti alla città.
Il vero pranzo nuziale si consumava la domenica in casa dello sposo, in quella che, nella maggior parte dei casi, sarebbe stata la nuova dimora della coppia. Ad esso partecipavano tutti i famigliari degli sposi, tranne la mamma della ragazza che se ne restava rinchiusa a casa sua considerando un giorno luttuoso quella festa (u lùtte). Da un punto di vista socio-antropologico questa consuetudine, inveterata nel tempo, era legata più al concetto della perdita di due braccia lavorative nei lavori di casa, dei campi e di bottega, che ad un vero e proprio dolore provato per la definitiva uscita da casa della figlia.
All’apertura del banchetto veniva servito come antipasto uno spezzatino a base di intingoli di agnello (zùffrìtte). Questa era una vivanda preparata in padella (fréssóra) con cipolla, pomodoro fresco e aromi naturali, stordita con vino bianco. Seguivano le classiche zìte, pasta di tipo commerciale, condite con ragù di carne di vitello e di maiale, spolverate con abbondante formaggio di pecora mescolato al pepe nero tritato grossolanamente in un mortaio (murtàle). Questi maccheroni erano chiamati così proprio perché si consumavano durante i matrimoni. Un’alternativa al sugo di ragù era quello alla genovese ottenuto da una laboriosa cottura della carne di vitello con una grande quantità di cipolle e di vino bianco. Con il progredire dei tempi, alle zite sono andate sostituendosi le mézezite, una pasta di dimensioni più ridotte della prima e, in tempi più recenti, i cavatiēlle e i criuōle, tipiche paste fatte in casa con farina di grano duro, uova ed acqua. Dopo la pasta si gustavano bocconcini di carne di vitello preparati con vino, formaggio e uova sbattute molto diluite (tréppétella). Il pranzo proseguiva con l’arrosto di agnello (àīniēlle), cotto sulla brace, con l’insalata di erbe dei campi e con la frutta di stagione. Naturalmente non mancava mai il vino di casa (téntiglia). Il banchetto era arricchito da una torta fatta in casa (pizza róce). Questo dolce, tagliato a strati, era infarcito con crema e bagnato con un liquore leggero fatto in casa. Il digestivo era il rosolio (résolie), elisir preparato con le antiche ricette della nonna.
Se le condizioni climatiche lo consentivano, la festa si concludeva con le danze all’aperto, altrimenti si ballava in casa al suono degli organetti fino a notte inoltrata.
Durante il banchetto le comari di battesimo e di cresima degli sposi preparavano un canestro (cesta), contenente il pranzo nuziale da portare alla mamma della sposa che le attendeva a casa nel più ristretto riserbo, nel rispetto del suo “dispiacere”. Finita la festa nuziale, gli sposi, che non potevano permettersi il viaggio di nozze, restavano chiusi in casa otto giorni di seguito (otte iuōrne ré’la zìta). Durante questo periodo, in cui i due si conoscevano meglio e consumavano il matrimonio, alla sposa era fatto divieto assoluto di sporgersi dalla finestra o dal balcone per non essere giudicata male dal vicinato. Era il loro “viaggio di nozze” prima di affrontare la dura vita dei campi e del lavoro in generale. Relativamente alla prima notte di matrimonio, va detto che la barbara usanza medievale, invalsa fino agli inizi del XIX secolo, di ostendere alla vista della gente il lenzuolo sporco di sangue (spànne’ l’onore), per comprovare la perdita della purezza della sposa, non è stata praticata più in questo periodo preso in esame, anche se essa era ancora presente in alcuni paesi molisani e regioni dell’Italia meridionale. Ad esempio a Sant’Elia a Pianisi, il giorno successivo ad un matrimonio contadino, le rispettive suocere si recavano nella casa degli sposi per offrire loro la colazione a letto, anche se il loro vero scopo era quello di vedere se era stato consumato il matrimonio con la consegna, da parte dei figli, del cosiddetto “pannolino”, prova tangibile della loro unione carnale.
Trascorsa la luna di miele, gli sposi uscivano di casa per la prima volta dopo il matrimonio per far visita ai parenti e consegnare loro i confetti. I confetti non erano fatti in casa, come la maggior parte delle vivande consumate durante il banchetto nuziale, ma erano acquistati nei negozi di dolciumi. Solitamente si compravano quelli di Agnone che erano di due formati: uno cilindrico con anima di cannella (cannélline), l’altro tondo e riccio con mandorla.Gli abiti indossati dagli sposi per l’occasione erano quelli tipici delle grandi ricorrenze diversi, per foggia, dal vestire classico locale. L’uomo indossava un vestito grigio antracite, a volte rigato, un panciotto, da cui pendeva l’orologio d’oro con catena, regalatogli dalla moglie nel giorno del fidanzamento ufficiale, una camicia bianca, anch’essa dono della moglie, una cravatta in tinta, scarpe dello stesso colore, a volte coperte dalle ghette, anche se queste le portavano solo le persone più facoltose, ed un bastone con pomello d’osso o d’argento. La donna, invece, indossava un lungo vestito di seta nero o marrone, su cui facevano spicco la cannacca o il làcce, alla cui estremità pendeva il bréllócche o il gancetto per attaccarvi un ventaglio. Questo modo di vestire preludeva alla fotografia ufficiale che i due facevano a ricordo del loro matrimonio. Tra gli studi fotografici più rinomati di Campobasso si ricordano quelli di Antonio e Alfredo Trombetta e di Clelio Benevento. Alcune fotografie d’epoca ritraggono l’uomo seduto su una poltrona, accanto a una piantana, con le gambe accavallate, le mani appoggiate al bastone e la giacca aperta sul davanti per mettere in evidenza il panciotto da cui pendeva l’orologio d’oro. La donna, invece, sostava in piedi alle sue spalle, o al suo fianco. Questa posa, volutamente studiata, per certi versi voleva rappresentare la posizione predominante che il marito aveva sulla moglie e sul contesto famigliare, spettando a lui, e solo a lui, il comando della casa.
La Molisana Magnolia, semifinale felice nel quadrangolare “Campobasso per lo sport”
“Non aprite quel messaggio”. Spunta un’altra truffa su WhatsApp