Marcello Petruzzi (33 Ore). Un «ricordo gentile» di Lucio Dalla - Articoli - SENTIREASCOLTARE

2022-10-14 10:46:31 By : Mr. Jackie He

Credo di aver conosciuto Marcello Petruzzi nei primi anni del 2000, grazie ad amici comuni e a quegli strani rapporti che nascono tra chi fa musica e chi scrive di musica. Ai tempi ci accomunava idealmente anche una persona del suo passato che in quel momento apparteneva al mio presente, e probabilmente una certa affinità umana figlia dei rispettivi caratteri. O, almeno, io ho sempre pensato che fosse così.

Le analogie però finivano qui, perché al contrario del sottoscritto lui era – e presumibilmente è ancora – un musicista di talento. Di lì a poco lo avrebbe dimostrato con il progetto 33 ore e due dischi troppo avanti per l’epoca di revival cantautorale un po’ nostalgico in cui bazzicavamo tutti (andavano per la maggiore il Dente di L’amore non è bello e il Brunori SAS di Vol. 1), ma a loro modo perfetti nell’evidenziare un songwriting originale e fuori dagli schemi. Riascoltati oggi – e per combinazione mi è capitato di farlo circa un mese fa, senza sapere che avrei scritto questo articolo – Quando vieni (2009) e Ultimi errori del Novecento (2011) suonano ancora vitali e sensati, figli di una poetica particolarissima e, come accade per tutta la musica che nasce da un vivere reale e non da calcoli opportunistici, per nulla invecchiati.

Questo articolo è il risultato di eventi recenti. Qualche settimana fa Marcello mi ha contattato e mi ha chiesto se fossimo interessati a pubblicare su Sentireascoltare un suo ricordo di Lucio Dalla in occasione dell’anniversario della morte del musicista. Dopo aver letto il testo che ci ha fatto avere, abbiamo accettato volentieri, perché ci è piaciuta l’idea di poter regalare ai lettori un punto di vista atipico sull’autore di Come è profondo il mare: quello di un musicista emergente che lo ha conosciuto abbastanza per lavoraci assieme, ma non a sufficienza per essere testimone di una biografia.

Una finestra aperta grazie all’intervento fondamentale di Angela Baraldi (il terzo personaggio di questa storia), ma anche una riflessione sul mondo della musica e sul peso che la fortuna e il destino a volte hanno sulle nostre vite. Come sottolinea del resto anche lo stesso Petruzzi nella breve intervista che anticipa il racconto di un incontro avvenuto ormai tanti anni fa, in un altro tempo e in un altro mondo.

Intanto, provo a dire in una frase di cosa stiamo parlando: è il racconto di un insuccesso che ha assunto negli anni il sapore di un ricordo gentile. È poi la testimonianza del fatto che di fianco a storie uscite bene, ci sono storie parallele i cui fili si allentano e non stringono più niente, irrilevanti ma vere.

Non si può negare che il decimo anniversario di morte di Lucio Dalla non sia l’occasione giusta per mostrare una storia piuttosto rara fra i tanti racconti e approfondimenti che ancora una volta leggeremo. A chi dovesse credere di fiutare in questo racconto un fine utilitaristico, tutto quello che posso dire è che non ho nulla da pubblicizzare, nulla da vendere. Scrivo poesie e racconti e non pubblico niente, mi piacerebbe, eppure nel complesso mi soddisfano le mie singolari proiezioni mentali. Le mie canzoni sono passate, seppellite da un decennio di proliferazione e fruizione musicale allucinante; il mio secondo disco non è neanche mai stato reso disponibile sulle piattaforme e se lo fosse non cambierebbe la vita a nessuno, così come non lo farebbero nuove canzoni; le etichette indie hanno sposato tematiche e processi con i quali è stato rifondato il mainstream, che a giudizio mio personalissimo di persona inattiva e non aggiornata, rispecchia una produzione fortemente livellata a livello emotivo e psicologico.

È innegabile che cercando di parlare di un artista scomparso si parli in realtà di noi. Succede sempre, lo abbiamo visto di nuovo recentemente con Mark Lanegan. Rileggo questo racconto, la cui primissima versione scrissi di getto dieci anni fa, e penso con affetto a come mi fosse crollato addosso il sogno di “farcela” con la musica. Non si deve credere che un artista sia sempre in grado di andare avanti da solo: chi lo afferma, mente sul fatto che c’è bisogno di persone che sostengano e aiutino il progetto a crescere: a livello organizzativo soprattutto, e poi a livello emotivo. L’artista che si spaccia per autonomo finisce per essere o un frustrato o un parassita.

Penso che fra le tante su Lucio questa sia una storia rara ed anche simbolica del suo entusiasmo. Per me è stato il grande artista che in Italia ha lanciato il cantautorato per la prima volta verso gradi di libertà e di imperturbabilità molto alti rispetto ai canoni, un musicista con doti tecniche ragguardevoli, con la bravura e la fortuna di aver coltivato tutto ciò che gli permetteva di restare sereno. Un artista che è stato pure in grado di fare cose brutte, ma che all’età ormai matura in cui lo avevo incontrato dava l’impressione di volersi rifare attraverso un sentimento di nuovo sciolto e sperimentale. Ascoltando già in quei primi giorni il lavoro fatto insieme, immaginavo proprio il potenziale di un Dalla “maturo”, dal canto invecchiato e basso di tonalità così come fu la registrazione di quel provino.

Naturalmente, per me era la speranza di accedere ad un livello più alto della mia carriera musicale di allora, questo perché a quel tempo i mezzi che avevamo da indipendenti non funzionavano ancora per fare breccia. Di lì a poco sarebbero cambiate le cose ma io scelsi proprio di scendere dal treno: era evidente che il “movimento” che stava per partire non sarebbe stato a beneficio di tutti, ed innegabilmente il mio cantautorato era anomalo, la scrittura privata, poetica e cupa, la collocazione stilistica era né revivalista, né sorniona o cabarettistica, né troppo coraggiosamente sperimentale. Il progetto aveva però, credo, la sua unicità, e l’interesse di Dalla nei suoi confronti sarebbe stato un sigillo di qualità se giunto a completamento.

C’è un motto che recita Give yourself permission to be a beginner, dunque «Concediti il permesso di essere un principiante». Io da allora ho continuato a ricominciare. Mi sono ricreato un modo di vivere grazie ad un lavoro “anomalo” che si rinnova mettendo l’ascolto degli altri al centro e non in periferia, se non persino al di fuori, della propria elezione creativa. La persona che cerca un motivo di esistere nell’arte deve tenere ben presente quanto dolorosa possa diventare un’ambizione.

Il talento esiste in gradi variabili, questo lo dico per rassicurare sulla mia consapevolezza del fatto che, qualitativamente, il mio progetto aveva i suoi limiti. Ed esiste la fortuna, senza dubbio: esistono il momento e il luogo giusti, l’adiacenza del proprio gergo con quello della moda, delle ricchezze e delle povertà del proprio tempo, esistono le disponibilità materiali. Ma nella vita bisogna lavorare per costruirsi rapporti interpersonali sani e non opportunistici, bisogna ricordarsi di fare telefonate spontanee e lanciare segnali di interesse per gli altri, abbandonando chi si pone in modo banale e discontinuo nei nostri confronti. E bisogna sempre osservare sé stessi, per riconoscere i momenti in cui cadiamo esattamente nei medesimi vizi.

Rispetto all’ambiente musicale, posso sbagliarmi ma mi pare che sia rimasto un cortile, mi pare cioè che chi vi opera si senta a posto col non voler porsi come beginner di fronte a esperienze e modi esterne ad esso, con cui invece si cresce, a patto ovviamente di essere umili, ed è forse proprio questo il punto critico. C’è una grande debolezza in chi, artista o non artista, non abbia un valore profondo di “cura”, convinto ormai della bugia con cui vorrebbe far intendere di occupare nel mondo una posizione più faticosa e incasinata degli altri. Mi fa pena oggi la sensazionalità a livelli puri di ansia, il fatto che tutto sia un’imprescindibile “bomba” o che si pubblicizzi qualsiasi scemenza della vita di tutti i giorni, quei pochi chilometri fatti in treno, quell’opinione urgente che non poteva esser taciuta.

Come sarebbe questa canzone con la voce di Lucio Dalla? 

Nessuno è più bello di noi, è questo che ci invidiano i santi e i giudici. Lo senti quel treno passare? Lo faccio fermare un momento e senza pensare si va nel posto più assurdo che c’è, la camera è pronta, lassù, si affaccia sull’Orsa Maggiore. Balla, balla, gira e gira, prima o poi cadremo insieme, che sia la mano della follia a prenderci per i capelli sporchi di stelle. Teniamoci stretti e balliamo, felici di un cielo contrario ridendo di più se possibile. Stanotte faremo un bel viaggio pagato da un grido di amore perché i calendari si sbaglino, capricci che gettano il fango sui nostri vestiti di festa per i matrimoni degli altri… 

Un pomeriggio del 2010 entrai nel famoso palazzo di via D’Azeglio in centro a Bologna, dove ero entrato già molte volte perché l’ambulatorio del mio medico di allora era proprio lì, al piano terra, si affacciava sul cortile. Quel pomeriggio mi prese la contentezza un po’ futile di quando ci si accorge che una cosa memorabile è sempre stata a un passo da incombenze monotone, da luoghi dimenticabili. Così, il portoncino anonimo che avevo sempre visto a fianco di quello del mio medico diventò quella volta un varco, e raggiunsi la casa di Lucio Dalla. 

Seguendo questo racconto, il lettore comune troverà cose certamente già lette negli ultimi dieci anni sulle leggende attorno all’artista che scomparve nel marzo del 2012, mentre la persona inserita ed informata eventualmente ne vedrà limiti, inesattezze, appropriazioni indebite. In fondo, il punto per me non è certo quello di una descrizione precisa e documentaristica di un mondo che comunque era privato. 

Era il primo autunno, la casa era silenziosa e sembrava che l’ombra la ingoiasse con facilità. Nei palazzi storici, a Bologna e altrove, è così. Quell’essere fatta di poca luce dovette aver inciso sul fatto che quella prima volta la casa mi apparve come una cattedrale, ciò era anche per via delle altissime aspettative con cui mi ci ero recato, su invito. 

Mi trovai a camminare in un percorso liquido e squadrato allo stesso tempo, o piuttosto ero come il passeggero di una nave portata fra colonne, angoli colmi di oggetti, camerette ed ampie sale, spesso con la sensazione di passare per gli incastri di un cubo di Rubik. Abbondavano opere d’arte, quadri e sculture, credo di aver riconosciuto Chia, Ontani, Pistoletto, anche Fellini. C’era un quadro di Gino De Dominicis di quelli in cui il becco spunta dalla superficie, un dipinto dominato da un blu profondo. Anzi: era il primo di quel tipo mai realizzato da De Dominicis, stando a ciò che il signor Dalla affermò di fronte al quadro in quella ondeggiante rassegna di benvenuto. «Lo giuro!», disse.

Che fosse verità o meno non l’ho mai saputo, ma è probabile che già in quei primi scambi io stessi entrando in contatto con un elemento che a tutti si rivelò poi immancabile nella leggenda del Dalla postumo, ovvero che il caro Lucio raccontava spesso delle gran balle per gusto, per divertimento, e magari poi finiva per crederci, come può capitare a chiunque. Un «paraculo». Io lo avevo dunque incontrato la prima volta così, rilassato, posato, quasi flemmatico. Accogliente, simpatico, con addosso un’eloquente furbizia. Io portavo un cappotto della Marina Militare, lui mi chiese di venderglielo, ma quel cappotto è di quando mio padre era ancora in servizio e dunque rifiutai. È bellissimo, lo uso ormai di rado e virtualmente l’ho già consegnato al mio piccolo figlio. 

Continuavamo a camminare lungo le pareti coperte di immagini. C’era una foto con Enrico Berlinguer di spalle sul palco, rivolto alla folla della Festa Nazionale dell’Unità di Reggio Emilia del 1983. Da questa descrizione, molti ricorderanno a grandi linee un celebre scatto di Luigi Ghirri. Sono tornato a rivederla mentre scrivo, noto i volumi della giacca di Berlinguer, la voce che esce dal suo corpo, le gambe incrociate e il modo in cui la punta del piede della gamba accavallata batte contro l’altro piede, la bottiglia di vetro sul predellino all’interno del podio da oratoria che sembra impiallacciato e messo su per l’occasione su un ponte sospeso di tubi Innocenti, e poi il popolo e le bandiere rosse sfuocati, irriconoscibili. Tuttavia, quella che vedevo ora appesa non era la foto originale: ormai non posso esserne più tanto certo, ma essa mostrava il soggetto da una prospettiva sfasata rispetto allo scatto comunemente noto. Stando alla spiegazione di Dalla, Ghirri e lui quel giorno erano insieme alle spalle di Berlinguer e scattarono negli stessi istanti. 

C’erano i ritratti di Trotzkij, di Frida Kalo e dell’assassino di Trotzkij, che era pure il cognato di Vittorio De Sica. C’era un drappo sovietico originale del Cremlino a ricoprire una chaise longue, non ricordo le particolarità dell’incredibile storia di come il drappo fosse giunto lì, in via D’Azeglio a Bologna. C’era una foto ritratto di Dalla nudo su un piedistallo in una sala del Quirinale: ospite durante un evento ufficiale, gli si presentò l’occasione di un androne deserto e non esitò a farsi immortalare in quel modo da un complice senza nome. Del resto – continuava a raccontare – il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano era solito insistere con lui ammiccando frasi come «Allora, ci vediamo a Capri?». Insomma, di questi personaggi pubblici lui sapeva, poteva rivelare sempre una porzione dissonante dalla solita fanfara. Mi raccontò persino che durante una telefonata Berlusconi gli giurò di essere di sinistra fino al midollo. E intanto, procedevamo con davanti a noi le stanze, i corridoi, le colonne, e raccontava, e raccontava. 

Scorrevano manifesti, premi, stendardi, dischi di platino, omaggi di artisti che lo avevano ritratto, l’impalcatura mobile dei muratori fuori dalla finestra su via D’Azeglio che mandava un bip simile ad un cuore meccanico, mentre fumavamo una sigaretta dopo l’altra. Statue, pianoforti, scale di legno di una compostezza muta, arazzi, piani rialzati, persone che mi si presentavano, un grande amichevole cane nero, i saluti annoiati di gente stesa sui divani e televisioni accese sui notiziari via satellite. Scorgevo a tratti l’ente di una fragilità che non sopportava il vuoto. 

Mi accompagnava l’amica Angela Baraldi. Le avevo fatto sentire i provini di quello che doveva diventare il mio secondo disco da solista. Da qualche anno, dopo tre lustri di punk ed esperimenti musicali, scrivevo e suonavo canzoni in italiano usando il nome d’arte 33 ore, credo con un buon gusto ma facendo l’errore che alcuni corrono e cioè mettere a rischio il proprio potenziale per via di un’alta, onesta se va bene, sofisticazione. Specularmente a questo, contribuivo alla sopravvivenza di una giovanissima e piccolissima etichetta discografica, Garrincha Dischi, che fra difetti e strampalataggini pubblicava giusto i tre quattro dischi di chi la teneva in piedi. Mi occupavo un po’ di strategia e un bel po’ di impacchettamenti. Ad Angela lasciai uno di quei brutti CD masterizzati e dopo pochi giorni mi chiese se potesse fare ascoltare il lavoro a Lucio Dalla: fra quelle canzoni ce n’era una, ne era certa, che era fatta per lui. 

Angela non si sbagliava, conosceva benissimo la sensibilità del suo vecchio amico e mentore. Dalla, infatti, disse apertamente che adorava quei provini e in particolare proprio quella canzone. La riascoltavamo mentre parlava accennando di tanto in tanto un’armonizzazione, il coro su un verso che aveva memorizzato, melodie immaginarie. Ed era Lucio Dalla, non so bene cosa ci sia da spiegare ancora o come: altezza, vigore e leggerezza, un canto sereno e persuasivo che sui binari in curva faceva anche scintille, senza mai paura. Chiedeva di farla ripartire, gettando su un tavolo il telecomando dello stereo che non riusciva a usare, fra i posacenere e le statuette di marmo. Ad accomodare i gesti calcati di una pazienza limitata per la tecnologia c’era Paolo Piermattei, la persona che oltre a occuparsi di edizioni faceva da talent scout per conto di Lucio, ovvero si faceva tutti i concerti underground e di nicchia in cerca di novità senza dover essere per forza riconosciuto e disturbato. Insomma, era una sorta di uomo di fiducia e il suo ufficio era adiacente a quello di Lucio; divisi giusto da una porta, i due si chiamavano continuamente, gridando e canticchiando. 

Lucio ascoltava e riascoltava tenendosi il mento con la mano e lo sguardo incantato fuori dalla finestra a vedere i minuti che cambiavano colore. Disse «Sono canzoni autentiche, sane, contemporanee e antiche», ne asserì un legame con alcuni suoi lavori profondi e provocatori, sosteneva le mie doti musicali, ma io non sapevo da che parte guardare. Quel signore che parlava delle mie canzoni era quello di “Il cucciolo Alfredo”, una canzone che potrei aver ascoltato, che so, la prima volta in radio, bambino negli anni ’80, mentre mio padre si fa la barba un sabato e che ancora anni dopo, in un giorno qualsiasi, la radio si permette di far apparire e tutto diventa chiarissimo, come se la canzone non avesse mai lasciato l’aria. 

Seguirono altri incontri, ci furono alcuni appuntamenti con discografici. Nel migliore dei casi rimanevano molto cauti, nel peggiore non si preoccupavano di mostrarsi distratti dai telefonini. Lucio voleva andare avanti, diceva «Sono dieci anni che non produco un disco. Questa mi sembra la volta buona per riprovarci». È il secondo virgolettato che uso in questo racconto e capisco che possa sembrare una malizia, e mi dispiace. Angela era felice, mi diceva che non era cosa di tutti i giorni che Dalla prendesse in mano una canzone di uno sconosciuto, voleva dire che ci credeva fino in fondo. Lui, del resto, non faceva che confermarlo e anche se col passare del tempo la sua figura magica diventava ai miei occhi sempre più umana, la mia vita quotidiana diventava luminosa per il progetto che prendeva corpo, per i complimenti di un artista a cui ero legato e per le mie ambizioni. Mi sembrava che tutto si fosse già realizzato. 

Decidemmo la data per registrare un provino. Si mise la sciarpa e il giaccone ed uscimmo in via D’Azeglio, ci fermammo a prendere qualcosa al bar di piazza dei Celestini, due chiacchiere col barista. Poco dopo scendevamo lungo la strada in direzione dei viali e fummo allo studio. Non ricordo più bene chi ci fosse quel pomeriggio, Paolo, i tecnici, il chitarrista. Un particolare: mi offrivano sigarette in continuazione. Ci raggiunse Angela. Io avevo portato la base con il mio arrangiamento senza linea vocale, tutto materiale registrato con estro e mediamente male al chiuso di una casa ricavata da una cantina dove mi ero ritrovato a vivere, e poi le fotocopie del testo. Il tempo di chiacchierare e fumare ancora mentre il tecnico preparava la sessione, poi Lucio mi chiese di andare dietro al microfono e buttarci la voce. Feci quello che potevo fare e in ogni caso serviva a lui per avere un’idea di come esprimessi la canzone al vivo della stanza. Finita la prova mi sentì disteso, ero ormai parte del lavoro.

Lui si alzò sereno e, come entrando e uscendo da un campo di gioco, mi sostituì al microfono, mentre io mi misi sulla poltrona che aveva lasciato vuota. Ascoltai nella nebbia della stanza affumicata le mie parole cantate da Lucio Dalla, parole che avevo scritto in un periodo simile al tempo che passa tra il montare in corpo di una meravigliosa anestesia totale e un’operazione chirurgica di cui si prende coscienza solo al risveglio. Fu una delle più grandi illuminazioni della mia vita, scoprire cosa è una voce. 

La regia fece silenzio e tutti dissero «È bellissima, Lucio». Angela mi pareva a tratti emozionata più di me, lei che aveva avuto l’intuizione primaria di quanto ora prendeva corpo in modo inconfutabile. La take fu riascoltata tre volte. Loro restarono lì a fare altri provini, io e Angela uscimmo dallo studio sulle note di un abbozzo di canzone con testo insensato. Lucio mi salutò dicendomi grazie, non mi sembra affatto un dettaglio da niente. Per strada, non smettevamo di ripeterci quello che era appena successo. 

Passarono molti mesi. Vidi Lucio un’unica volta in casa sua, in procinto di partire per il nuovo tour con Francesco De Gregori, su un tapis roulant ad allenarsi per non sopperire alla fatica che lo aspettava. Penso di averlo incontrato solo in altre due occasioni per tutto il 2011. Il tempo di attesa aveva fermato le mie aspettative, non c’era ancora un piano per il suo nuovo disco di inediti e i suoi impegni erano tanti, tra il tour, un libro, una raccolta, la promozione. Con Paolo Piermattei ebbi diversi scambi telefonici, mi sosteneva e mi diceva di aspettare.

Presi comunque la decisione di pubblicare il mio secondo disco da solista, avendo cura di lasciare fuori la canzone che avevamo registrato e rivedendone altre sulla base dei consigli ricevuti da lui durante i tanti ascolti. Con Lucio non ci sentimmo più, non avevo fatto mai più il numero di telefono che ho ancora memorizzato col nome Lucio ProfondoMare, a cui la prima volta aveva risposto con un falsetto che mi costrinse a chiedere «Salve, sono Marcello l’amico di Angela, posso parlare con Lucio?». Lui mi aveva risposto «Scemo, sono io». 

Venni a sapere che Lucio aveva portato avanti la produzione della take e chiesi all’unica persona dell’entourage con cui continuavo ad avere contatti di poterla ascoltare. Questo momento arrivò presto e accadde la cosa più importante di tutte: ritrovai la canzone identica a sé stessa, con la sua voce sui suoni marci del provino fatto nella casa-cantina, quelli che lui – dissero mesi e mesi dopo la sua morte – voleva ostinatamente mantenere; al contempo, era stata inserita una base ritmica dimezzata e creata un’estensione del ritornello che io non avevo pensato, anche se era già lì, dentro la canzone. Era la semplice ripetizione di una frase fuori dalle note dell’inciso su quelle della strofa, che creava una apertura corale leggera, aiutata dai reverb. È stato il momento in cui ho capito l’elemento mancante nel mestiere che credevo mio, il mestiere di emozionare. 

Quello fu anche il momento in cui credetti che saremmo andati avanti e invece in un codardo bisestile Lucio morì, al termine della notte in un vaporoso primo di marzo. Conosco l’aria di fine inverno che si respira a Montreux, ci sono passato spesso, ho dormito sul lago e ho aspettato treni sui binari sopraelevati sul piccolo centro. È blu. Pare che si sia spento sorridendo, questo è ciò che abbiamo saputo nei primi momenti di quel giorno. Avevo raggiunto Angela ai giardini Margherita, il suo telefono continuava a squillare malissimo, era ricercata dai giornalisti. Passeggiammo un po’ fra i ragazzini che uscivano da scuola e si mandavano messaggi mentre commentavano ad alta voce la notizia. 

In quei giorni finalmente cambiavo casa e decisi di accanirmi su un armadio a muro nella nuova abitazione per scioglierne il mastice dalle coperture con un prodotto corrosivo, la nitro, dotandomi così di una causa per l’irritazione che sentivo in gola e intorno agli occhi. Ero disperato, con i miei motivi, mentre tant’altra gente disperata con i suoi motivi faceva di via D’Azeglio un campo di fiori. Così, andai al CUP e cambiai dottore. 

Questa storia è rimasta chiusa per anni, l’ho riletta molte volte ed è come quando si addolciscono i gusti più amari. Sto bene, corro sul tapis roulant che tiene i giorni in modalità felice, accudisco i miei contrasti e ogni tanto osservo passare di lato quello che credevo di essere: uno che non era capitato per caso. In un archivio digitale rimane un audio-fossile, e strada facendo incontro persone buone che hanno bisogno di sentire quella voce, calda e familiare, che inizia Nessuno è più bello di noi… 

A fine 2012 dissi addio alla musica dal vivo, del resto non stava funzionando nulla, neanche con i colleghi, che credo avrebbero potuto sostenermi diversamente. Ma stava cambiando la sostanza, ed è stupefacente pensare che il 14 febbraio di quest’anno (2022) si celebra il decennale dall’uscita di Turisti della democrazia dei Lo Stato Sociale, su cui ancora una volta feci un po’ di strategia e un bel po’ di impacchettamenti e che trasformò il corso delle cose per tutti gli allora pochi coinvolti nel gioco della Garrincha Dischi. Me compreso, ma in tutt’altro modo: quello che era partito non era il mio spettacolo, così mi misi sulla via di un risanamento personale, meritato, necessario, e iniziai a girare il mondo inventandomi un lavoro insolito centrato sull’ascolto degli altri, senza che nessuno peraltro venisse più a cercarmi dal di là. Una vita diversa, in cui trascorrere due ore a Mumbai e finire a Dallas, Parigi e casa non era anomalo, iniziò e durò a lungo. Ma la verità è che non si smette mai del tutto: puoi dire di no alla musica, ma la musica non dirà mai di no a te. 

Registrazione Trib. BO n. 7590 del 28/10/2005 © 2020 SENTIREASCOLTARE All rights reserved.